Convegno della Fondazione Lepanto: la pastorale al servizio della dottrina


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«No ad un linguaggio ipocrita. La pastorale sia al servizio della dottrina». È stato questo il messaggio principale del convegno Matrimonio e famiglia. Tra dogma e prassi della Chiesa, organizzato dalla Fondazione Lepanto e dall’Associazione Famiglia Domani, lo scorso 10 ottobre a Roma, nella Sala S. Pio X in Via dell’Ospedale.

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Davanti una platea di oltre duecento persone, tra cui numerosi sacerdoti e religiosi, si sono alternati al microfono il prof. Roberto de Mattei, docente all’Università Europea di Roma e presidente della Fondazione Lepanto; il prof. Giovanni Turco, docente all’Università degli Studi di Udine; mons. Antonio Livi, decano emerito della facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense e il card. Velasio De Paolis, presidente emerito della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, nonché ex segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, e delegato pontificio per la congregazione dei Legionari di Cristo. Concetto chiave che ha fatto da trait d’union tra i diversi interventi è stata la necessità di riaffermare con forza la verità sul matrimonio e la famiglia contenuta nella dottrina e nella tradizione della Chiesa, invocando una pastorale chiara, senza incongruenze o contraddizioni.

Il cardinale Velasio de Paolis

Presenza d’eccezione quella del card. Velasio De Paolis, che ha ribadito come l’importante per la Chiesa sia «sempre risalire alla fonte: Nostro Signore Gesù Cristo». Il cardinale ha ricordato che «Papa Francesco fin dall’inizio del Sinodo ha affermato che la dottrina non verrà mai toccata e che non è in messa gioco», però rimane il problema dei “matrimoni” dei divorziati risposati «che sono persone che vanno aiutate». «Si tratta – ha osservato il prelato – di trovare una strada che sia congrua con la dottrina stessa. La verità è verità». La preoccupazione del cardinale è tutta per la crisi dell’istituto matrimoniale. È più grave di quanto sembra dobbiamo renderci conto che «se continuiamo così in futuro non avremo neanche più dei matrimoni».

La domanda che si pone è come far fronte a questa triste situazione. «Dobbiamo ingegnarci per conformarci al progetto di Dio», è la risposta del prelato, quindi non si può immaginare una pastorale contro la dottrina. «Una prassi pastorale che va contro la dottrina è di una illogicità spaventosa. Non è cristiana» ha ribadito il cardinale. Da quì la necessità di riaffermare la verità. «Se noi non torniamo ad una discussione che parte dalle certezze di fede non possiamo andare avanti» perché «oggi parliamo tanto di compassione, di amore e di misericordia. Ma senza verità, siamo fuoristrada». Verità che include anche il modo di esprimersi, il linguaggio da usare. «Le parole oggi non significano più niente», si parla «in modo sconclusionato», si fanno «affermazioni che negano, con una battuta, cose conclamate fino ad oggi», mentre €abbiamo bisogno di contenuti per ritrovare la realtà vera». La soluzione per il cardinale non può essere che una sola. «I peccatori non vanno respinti, ma va trovata la strada giusta. La via dell’amore nella verità». Perché, ha precisato, «prima ancora della misericordia, c’è l’amore». E «l’amore può esigere sia la misericordia, sia la severità».

il prof. Roberto de Mattei

Dello stesso avviso il prof. Roberto de Mattei per il quale «il mondo si è allontanato dalla vita cristiana perché ha smarrito la dottrina della Chiesa. Per essere ricondotto a Cristo è innanzitutto la buona dottrina che deve ritrovare, perché la vita deve conformarsi alla verità, non la verità alla vita». È chiaro, secondo il professore, che «al di là del Sinodo, ciò che emerge è l’esistenza di un progetto di ribaltamento della morale tradizionale della Chiesa». Il matrimonio e la famiglia «oggi sono in pericolo, minacciati da nemici purtroppo non solo esterni, ma anche interni alla Città di Dio», e vengono «messi in discussione all’interno della Chiesa», una cosa che «non era mai accaduta nella storia». de Mattei ha poi ripercorso alcuni passaggi significativi nella storia della Chiesa che «fin dai primi secoli ha sempre affermato l’indissolubilità del matrimonio e l’ha affermata a sue spese, sfidando l’ira dei potenti».

La vicenda di Enrico VIII è emblematica. Papa Clemente VII non concesse il divorzio ma riaffermò l’indissolubilità del matrimonio e per questo ci fu lo scisma. «I successori di Clemente VII – ha ricordato de Mattei – consideravano giusto il suo atteggiamento perché il male può essere tollerato ma non scelto». Cosa che dimenticarono, nel VI secolo, i Patriarchi di Costantinopoli quando Giustiniano e gli imperatori bizantini ammisero il valore delle seconde nozze. «La Chiesa d’oriente per anni tollerò nei fatti con la prassi ciò che condannava in via di principio». Ma, come ha ricordato de Mattei, visto che «la cattiva prassi genera necessariamente una cattiva teoria», con lo scisma d’oriente (1054 d.C.) si accettò anche il cambio di dottrina provocando la reazione di santi come san Teodoro Studita così che «la Chiesa d’oriente adeguò i principi alla prassi mentre la Chiesa romana adeguava la prassi ai principi». Infatti nell’XI secolo molte piaghe affliggevano la Chiesa di Roma: la simonia, il concubinato dei preti e la sodomia. «Da Cluny partì la riforma grazie a santi come S. Gregorio VII o come S. Pier Damiani che non levò gli sguardi davanti alla lordura morale, non moderò il linguaggio ma lo infuocò».

Come ha ben spiegato il professore, essi «non hanno invocato la legge della gradualità o del male minore, non hanno definito il concubinato dei preti come una situazione irreversibile di cui prendere atto, non hanno invitato a cogliere gli elementi positivi nelle unioni omosessuali e delle convivenze extra matrimoniali. Non hanno invitato la Chiesa cattolica a scrutare i segni dei tempi, ad adeguarsi al corso della storia; non hanno chiesto alla Chiesa di cambiare il linguaggio e l’approccio; hanno affermato che a cambiare deve essere il mondo; che il mondo deve essere evangelizzato e non la Chiesa mondanizzata».

il prof. Giovanni Turco

Il prof. Giovanni Turco, nel suo intervento ha focalizzato l’attenzione sul principio di non contraddizione specificandone il carattere logico ed ontologico. Secondo questo principio «ogni cosa è ciò che è – ha affermato –, anche il matrimonio e la famiglia». Il matrimonio, infatti, è una realtà naturale ed è iscritta nella natura dell’uomo «e come tale è immanente e immutabile». Di conseguenza «o il matrimonio è indissolubile o non lo è. Non c’è pastorale che tenga. Tale è nella sua sostanza e non dipende dalla volontà di alcuno». La naturalità del matrimonio, secondo Turco, non risiede infatti «nel suo successo o fallimento. Queste sono categorie sociologiche. La naturalità del matrimonio è nella sua sostanza».

Per il professore se i luoghi sociologici o psicologici si sostituiscono ai luoghi teologici – si pensi ai fallimenti dei matrimoni – e vengono assunti come tali, e i luoghi ideologici vengono assunti come luoghi teologici «la fede stessa diventerà credenza». La conseguenza allora sarà «la dissoluzione di ogni principio. L’unico criterio diventa la scelta soggettiva». Al contrario, ha osservato Turco, è «l’agire che deve conformarsi all’essere» perché altrimenti «la falsa ed erronea impostazione di un problema, porterà ad una falsa soluzione del problema. Quì risiede il nocciolo della questione. Il primato della pastorale, assunta a criterio omnicomprensivo non è né amore, né carità, né misericordia» perché «il bene deve essere criterio della prassi, non il contrario». Turco ha ricordato che secondo S. Tommaso d’Aquino «il bene è nell’integrità di bene: oggetto, fine e circostanze. Privo della sua integrità non è bene. Dunque il bene parziale non è bene. È precisamente male». «Se la pastorale – ha continuato il professore – pretende di essere criterio di bene diventa pastoralismo, primato della prassi, prassismo, machiavellismo, in fondo nichilismo. Se prevale il primato della prassi si mette al bando ogni principio. Diventa metodo senza contenuto, è prassi senza finalità».

«Lo scopo della pastorale – ha affermato mons. Antonio Livi – è il bene delle anime. Da secoli la Chiesa ha detto che chi crederà sarà salvo e chi non crederà non sarà salvato. La pastorale è questa. Se non è questa, allora ha un fine occulto, cioè convincere gli altri a credere qualcosa di falso. In greco questa si chiama ipocrisia». È possibile, si è chiesto il monsignore, evidentemente riferendosi al card. Kasper, «che un intellettuale, sacerdote, vescovo e cardinale non capisca questo?».

Mons. Antonio LiviMonsignor Livi ha puntato il dito sulle parole «che ripetono in continuazione» coloro che vogliono scindere la pastorale dal dogma. Usano «frasi totalmente incoerenti che paiono impossibili e quindi false». Quando si tratta dei dogmi della Chiesa, dell’Humanae Vitae, ha affermato mons. Livi, «e si dice – come l’episcopato tedesco dice in massa – che è superata, cosa si vuol dire? che il magistero è superato? essi seguono un altro criterio che è malvagio, per scardinare la vita della Chiesa per cambiare. Non è vero che propongono cambiamenti per il bene delle anime. Non è vero». Il problema che mons. Livi ha affrontato, alla luce dei princìpi del tomismo, è quello del rapporto, nelle scelte umane, tra intelligenza e volontà. I teologi che oggi negano la legge divina e naturale non possono ignorare la dottrina della Chiesa. Il loro errore è nella volontà, prima che nella loro intelligenza. Essi non vogliono sapere ciò che non vogliono fare e quindi attribuiscono il primato al fare sul sapere, all’azione sulla conoscenza. La cattiva prassi genera sempre una cattiva dottrina. (Daniele Sebastianelli)

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